Italia

Italia sì, Italia no, Germania jamme.

Un anno fa mi trasferivo ad Amburgo, mi stabilivo nella mia nuova stanza di Veddeler Brückenstraße, in quel quartiere a Sud-Est della città che vi ho descritto con adorazione più di una volta.

Lì, di fronte a quei tre piani senza ascensore, con una parte delle valige che ancora ho lasciato nella soffitta di un’amica tedesca, nella speranza, forse, di lasciarmi una porta aperta, anche fosse quella dello scantinato.

A distanza di un anno, mi manca quella Germania da cui sono fuggita, poi?

Com’è ritornare in Italia, controtendenza, controvento rispetto alla maggioranza sempre più convinta di partire?

Ho incontrato un’amica che non ha mai sopportato le mie lamentele e critiche a Crucconia mentre vivevo ad Amburgo. Infermiera tarantina a Colonia, ci siamo incrociate a sorpresa per quel miracoloso concerto del primo maggio che ha risvegliato non poche speranze nel potere di una collettività giovane e vogliosa che scavalca la politica, il sindacato, la burocrazia e l’assenza di fondi, ostacoli tangibili che spesso, però, diventano scuse facili per giustificare quell’apatia di intenti che ti attanaglia le membra, specie nel meridione. Mi aspettavo racconti soddisfatti, l’ennesimo “ma chi te l’ha fatta fare” dell’ultimo periodo. E invece, a prescindere da alcune sfighe del tutto personali, anche lei, dopo 3 anni, è stanca di Germania e vorrebbe tornare qui.

A me me basta lu sule, canteranno i Sud Sound System poche ore dopo. Riduttivo, ma squaglia i cuori come il burro delle torte tedesche. Più che il sole – dato che anche questo è un maggio particolarmente piovoso per gli standard pugliesi – ci è mancata la solarità: possibile che dopo tanti anni lì (e lei, a differenza mia, parla pure perfettamente tedesco) non sia riuscita a crearsi un giro di contatti, di amici, di persone con cui condividere il tempo, che non siano il suo cane? Perché bisogna fare questa fatica – spesso inutilmente – per conquistare l’attenzione di un tedesco? In amicizia, per carità, “figurarsi se dovessi sperare di trovare marito”. A 25 anni uno comincia pure a pensarci. “Ma come faccio, torno qui e vado di nuovo a vivere coi miei? Non ce la potrei mai fare.” mi appella giustamente. “E poi per fare cosa? Non si capisce quando potrebbe esserci un nuovo concorso per infermieri, e dove. Lì ho un lavoro, come posso abbandonarlo?” 

Così, si sente di nuovo a casa sua per qualche ora, e poi torna ad abitarne una in cui è libera di fare ciò che vuole, ma che non sente propria.

In fondo sembra che ogni buona idea, qui, non possa attecchire, sempre e comunque divorata dal veleno, nascosta dalla gramigna.

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Contemporaneamente, non mi pento di aver abbandonato quella scrivania grazie a cui ho guadagnato i risparmi di cui custodisco ancora gelosamente gli ultimi spicci mentre sguazzo nel precariato del giornalismo non retribuito e della costruzione di utopie.  Non mi sentivo comunque realizzata, e forse è vero, quello che doveva essere un vanto della nostra generazione – il non accontentarsi mai – sta diventando un problema.

Sono fiera di averci ricreduto, dando in un certo senso ragione a chi definisce codardi quelli che partono. C’è ancora tempo per sporcarsi le mani e pensare che si può fare. Ma…ne vale davvero la pena? Si tratta di una lotta strenua, di una battaglia da combattere con le unghie e con i denti, prima di tutto con se stessi.

Cominciano ad essere sempre di più i giorni in cui stento a trovare ossigeno piuttosto che quelli in cui mi sento libera di respirare a pieni polmoni – anche perché qui a Taranto non conviene prendere grosse boccate d’aria. Non è solo la mancata autonomia di dover sottostare di nuovo ai regimi e i tempi della famiglia che ci è mancata mentre eravamo lontani, ma con cui adesso stentiamo a trovare un equilibrio nel rispetto di tutti.

Ciò che mi manca davvero del vivere ad Amburgo – oltre al sabato pomeriggio a botte di flöhmarkt e kaffee und kuchen con le amiche! – è il magone che il malessere italiano continua a provocare. Quella tv, quella radio che potevi decidere di spegnere, quelle notizie da cui potevi cercare di distaccarti per quanto la tua nazionalità resti incancellabile, in un mix di ripudio verso il contesto abbandonato e distorsione patriottica alla pizza-pasta-mandolino/sole-mare-vento. Un romanticismo che scaturisce solo dalla distanza.

In Italia c’è questo sentore di stasi perenne da cui non si vede la luce in fondo al tunnel, questa crisi che è sempre più infima, sempre più politica, sempre più morale. Impossibile non avere voglia di piangere di fronte alle scene, per esempio, dello scorso sabato sera allo Stadio Olimpico. Piangere di un pianto di rabbia e a tratti di disperazione, come quell’inno di Mameli fischiato, sputato, infangato.

Le ingiustizie sono troppe.

Mio zio, carpentiere, a casa da mesi, senza più un contratto. La pancia cresce insieme alla pigrizia, su cui abbiamo ancora la forza di ironizzare chiedendogli informazioni sulla sua “gestazione”.

Quell’apatia, dicevo, quel germoglio che muore sotto il peso di una terra troppo greve.

Mia cugina, studentessa fuorisede che sta per laurearsi, e tornerà a casa per scrivere la tesi, pur di risparmiare l’affitto di qualche mese.

“Perché non abbiamo il diritto di realizzarci dove siamo nati?” mi chiede davanti a un (buon) caffè con un’ingenuità disarmante.

Non lo so, ma è così. E a quel punto, piuttosto che stare all’interno dei confini, con il diritto di parlare la propria lingua, onorare le proprie tradizioni, amare i propri cari – per quanto sia bello impararne una nuova, farne proprie di diverse, conoscere nuove persone – l’unica soluzione sembra proprio quella di fare nuovamente fagotto.

E il mito agli occhi degli italiani, per quanto ormai si dovrebbe e potrebbe guardare ai paesi emergenti (fra cui spicca anche l’Albania in un’inversione da paradosso storico) resta quello della Germania.

Una coppia di amici l’ha perfino scelta per la loro ultima vacanza, per una Pasqua immersi nella foresta nera, e in un Sud bavarese forse un po’ più caloroso del profondo Nord amburghese. Lì, una loro amica, biologa molecolare, sta facendo il suo dottorato per molto più di 1000€ al mese, perché il PhD è un premio d’eccellenza, una prospettiva di ricerca duratura, non un parcheggio per chi vuole assicurarsi uno stipendio mensile fisso, almeno per 3 anni, come accade anche ai migliori, in Italia.

Lei, in Italia, non tornerebbe mai, e loro sarebbero rimasti volentieri dov’erano.

 

E io mi chiedo perché non sia riuscita ad innamorarmi di un tale partito, e mi chiedo se valga ancora la pena di credere che esista quell’amore che cerco chissà dove.

Oscillando fra i pro e i contro tricolori, ricordo che un anno fa smisi di chiedermelo e mi limitai ad andare.

Jamm’ja.

Chissà che non accada di nuovo.

10 motivi per cui (ormai) potresti sembrare un tedesco

(Dal blog “Hamburger di Amburgo” su Zingarate.com)

29 Novembre 2013

 

Ho ricevuto qualche commento contraddetto e contraddittori riguardo uno dei miei post precedenti“10 modi per essere (ancora) italiani in Germania” da alcuni considerato un po’ troppo legato al nostro modo di fare e di pensare (della serie che te ne sei andata a fare) a malincuore diventa necessario riportare le 10 accuse che mi sono state rivolte, specie dagli amici italiani, in questi quasi sette mesi di permanenza in Crucconia, quando esclamarono: “sei diventata un po’ tedesca…”

Le loro mascelle si sono spalancate in un’espressione scandalizzata perchè:

1) Non controllo gli orari della metro sul sito dell’HVV (la compagnia di trasporti pubblici della città di Amburgo), ma mi posiziono al punto giusto del binario per beccare la carrozza più vicina all’uscita della fermata dove scenderò. In mia difesa, la considero solo una questione di pigrizia paragonabile al fatto che non salgo e non scendo le scale mobili, ma chi lo sa, forse sotto c’é dell’altro.

ph. hh-zeitung.de

2) Sempre a proposito di mezzi pubblici e spostamenti, anch’io mi lamento tantissimo se mi capita di aspettare il treno per più di 5 minuti. “È inaccettabile, sette minuti, nel frattempo avrei potuto fare questo, e questo, e questo!”. Controlla gli orari dell’HVV prima di uscire, mi direte. Ma soprattutto: che fine hanno fatto quattro anni in attesa degli autobus dell’Atac di Roma (che come un efficace profilo Facebook ironizza sulla sigla, potrebbe ribattezzarsi “Arrivo Tardi A Casa“?)

3) Faccio un uso spropositato dei calzini. E ne compro una marea, perchè devono essere carini e nient’affatto bucati, visto che qui é normale togliersi le scarpe anche in casa degli altri.

Un simpatico episodio mi vedeva indossarne un paio (per giunta bianchi) prima di andare a dormire, per non lasciare i piedi nudi sotto le coperte. La mia amica, esterrefatta, mi chiese cosa stessi facendo. Le risposi che così “mi sentivo più sicura”, e purtroppo non ero ubriaca. Ho iniziato a preferirli al gambaletto, alla calza trasparente…e di riflesso (per fortuna) metto più pantaloni che gonne. Come una vera donna emancipata del Nord Europa.

4) Ahimé, bevo il cappuccino subito dopo il pranzo. In caso di brunch o colazione alla tedesca, quindi di un pasto salato (che accetto con sempre meno disgusto) é capitato che succedesse anche prima di mangiare. Orribile, lo so. Ma come vi avevo spiegato, quello che i tedeschi chiamano espresso é imbevibile, e il latte macchiato ha troppa poca percentuale di caffeina per le mie esigenze. Il cappuccino diventa l’unica soluzione.

5) Sono affetta da epidemia del controllo e della programmazione. Non ho un’agenda settimanale perchè a 23 anni la mia memoria é ancora fresca, ma pianifico eventi per almeno 15/20 giorni e se non lo faccio vado nel panico. Ovviamente sottopongo a questa pratica tutti coloro che con me devono condividere il mio tempo. Anche gli amici italiani, che beatamente lo lasciano trascorrere per organizzare all’ultimo momento qualsiasi cosa, anche un viaggio. Sono diventata la regina dei reminder, abituata a sentirmi dire “no, tut mir leid, ho già un altro impegno, forse possiamo vederci il 92 marzaio dalle 19 alle 19:04?” ho iniziato a scrivere e-mail imbarazzanti: “Ciao ragazzi, ricordatevi che fra un mese sono a Taranto, siete liberi?”


6) Se avessi totalmente perso ogni senso del pudore e della corretta alimentazione, mi ciberei esclusivamente di bretzel. So che sono bavaresi, ma ci sono anche ad Amburgo, e in generale sono tedeschi. Appena sfornati, scendono giù come l’acqua, si sciolgono in bocca. Avrò i globuli rossi a forma di cuore intrecciato.

7) Dovrei iniziare a frequentare le riunioni degli AA. Non per la birra, non per il glühwein bollente dei mercatini di Natale. “Ciao, sono Eleonora e non riesco smettere di bere Apfelschorle.” (succo di mela frizzante): la prima A, quindi, non è quella di Alcol.

8 ) Il mio tedesco, nonostante il corso A1, ha fatto i progressi di una tartaruga zoppa. Tuttavia, nelle ultime settimane ho iniziato a dire “Ach, so!” per QUALUNQUE cosa. E non é semplice spiegarne la funzione: i tedeschi lo usano per puntualizzare (“Ah, ecco, dicevo!”), esprimere sorpresa (“ora capisco!”) o incredulità (“davvero?”). Utile, insostituibile e, ad un certo punto, irrinunciabile.

9) Ho smesso di aprire l’ombrello quando piove, come tutti gli amburghesi che si rispettino. Non solo perchè la pioggia, a volte, é talmente sottile che un cappuccio può sembrarti sufficiente, non solo perchè il vento a volte é talmente forte che te lo porterebbe via. Ma soprattutto perchè…non lo apre nessuno, neppure io. Sono troppo a disagio.

10) Mi sento in colpa se non lascio la mancia quando pago in un ristorante. È una pratica normale qui in Germania, sostituisce quell’euro che di solito in Italia paghiamo per il coperto. Ho imparato che se voglio lasciare la mancia mi basta ribadire la somma che voglio pagare (se il conto – die rechnung –  é di 19€ posso dire, come a rilanciare, “20!”) Il punto é che non riesco sempre ad andare oltre la logica italiana del lasciare la mancia perchè il cameriere é stato particolarmente gentile o si é mangiato divinamente. E poi non so mai quanto “dover” dare. Anche a rischio di sbagliare, dò sempre qualche centesimo e mai mi sono sentita giudicata per la somma, anche fossero stati 5. (che pezzente!)

10 modi per essere (ancora) italiani in Germania

(Dal blog “Hamburger di Amburgo” su Zingarate.com)

5 Novembre 2013

Nell’incontro-scontro quotidiano con le differenze culturali, in questo odi ed amo verso l’ordine fin troppo ordinato di Crucconia, mi sono imbattuta in un simpatico test, in un pomeriggio di noia. Si chiama “The German quiz”, ideato da Adam Fletcher e Beck Verlag autori del libro How to be German / Wie man Deutscher wird ovvero: “Come essere tedesco”.

“È il 2013, la Germania é la nazione con la migliore considerazione mondiale, ha i migliori turisti del mondo ed é il cuore dell’economia Europea. É figo essere tedeschi!” questa l’intro – ovviamente ironica, seppur considerando dettagli reali – al quiz che, quindi, si chiede quanto tu sia tedesco. Bene, mi spaventa affermarlo, ma lo sono al 70%, quando la media é un punteggio del 64%. Ovviamente é solo perchè ho saputo immedesimarmi nelle plausibili risposte di un crucco DOC.

“Sei tedesca come il Pfand (la cauzione che si ottiene dal riciclaggio delle bottiglie di plastica), l’Apfelsaftschorle (il succo di mela frizzante) e l’urlare per strada alle persone che commettono piccole infrazioni”, tipo camminare sulla pista ciclabile.

Eppure, col trascorrere del tempo, ci sono dettagli della mia italianità che non riesco e forse non voglio abbattere. Retaggi che voglio conservare e riassumono un inequivocabile modo di essere, specie nella terra dei nostri da sempre “nemici”.

Questi sono i 10 modi per cui continuereste a riconoscere che sono un’italiana trapiantata ad Amburgo:

1) Non controllerò gli orari della metro sul sito dell’HVV (la compagnia di trasporti pubblici della città di Amburgo) così da non perdere neppure un minuto. Mi piace ancora aspettare che passi il treno, anche quando si gela. E se le scale mobili si chiamano tali ci sarà un motivo: per questo non le percorreró né in salita né in discesa, neanche fossi in ritardo per il meeting del secolo.

2) Nonostante i raccapriccianti spettacoli che mi circondano mi permetterebbero di abbandonare completamente uno stile ed una certa cura del mio aspetto (dettaglio spesso eccessivo al contrario in Italia, dove mi sono sempre lamentata della fissa per le grandi firme ed il conformismo dilagante nel vestirsi) continueró a non mettermi piú di 3 colori addosso, o una sola fantasia. No ai calzini nei sandali! Se fa freddo, se vuoi stare comodo (comandamento numero uno del vestiario tedesco) mettiti un paio di sneakers. Cosí continueró ad usare le borse e non gli zaini: sono pratici, ok, ma sono una donna. E per lo stesso principio, continuerò a depilarmi.

3) Daró ancora importanza ai pasti, alle portate multiple (antipasto/primo/secondo/contorno/frutta/dolce), al cappuccino che NON puó accompagnare il pranzo o la cena. Alla condivisione del cibo, al gusto della portata. Non mangeró per saziarmi, mangeró perché amo mangiare, e possibilmente mangiare bene, e possibilmente condividendo ciò che mangio con le persone a me care.

4) Non programmeró ogni singolo istante della mia vita secondo una rigida agenda. Il tempo libero é una risorsa trascurata, e spesso implica proprio il NON avere orari o attività. Essere spontanei, non nell’accezione negativa del tedesco “spontan” che si tradurrebbe come “improvvisato”. Amo, adoro le cose che accadono quando meno te l’aspetti, sono miracoli divini, non disgrazie. “La vita é quello che accade mentre sei occupato a fare altri progetti”, scriveva John Lennon, che proprio ad Amburgo ha debuttato insieme ai Beatles. Perció…lo prenderei in parola!

5) Perció, continueró a lavorare per vivere e non a vivere per lavorare.

6) Non smetteró di essere gentile ed educata, rivolgendomi alla gente con un saluto, anche se si tratta di sconosciuti. Ringrazieró per cordialità, sorriderò anche se non sono costretta. Non spintoneró nessuno mentre sono in fila: nella tipica situazione di un attraversamento di fronte al rosso per i pedoni, i tedeschi sono capaci di fare una fila da soldatini. Idem di fronte alle porte della metro: tutti fanno uscire i passeggeri che scendono. Allo scattare del verde, o una volta liberata la via all’ingresso sono altrettanto capaci di calpestarti come se fossero unici e soli al mondo: ignorano donne incinte, passeggini, anziani, malati. Nessuno li circonda.

7) Continueró a NON corteggiare un uomo. Da che mondo e mondo, sono loro a dover fare il primo passo e non noi donne a doverli rincorrere. Posso accettare che non mi porti i fiori, che non mi faccia un regalo che non paghi la cena: é una questione culturale, é il rovescio della medaglia per la parità dei sessi. Ma non che ignorarmi significhi che mi desideri e viceversa: se la Germania è al contrario, preferisco restare zitella a vita. O cambiare Paese.

8 ) Non introdurró alcol nel mio corpo prima delle 17, giuro! Specie se si tratta di birra mescolata a Jack Daniel’s, colazione classica del tedesco ubriaco medio.

9) Continueró a lamentarmi del tempo. Continueró a lasciar cambiare il mio umore in base alle previsioni metereologiche: se piove saró triste, se c’é il sole daró una festa come se fosse il mio compleanno. Punto!

10) Continueró spontaneamente a pensare che in assenza di tornelli all’ingresso della metro potrei tranquillamente evitare di pagare il biglietto. E sono una persona onesta (perció alla fine ho addirittura l’abbonamento!) ma a questa piaga, spesso ragione dello scatafascio del nostro Paese, la mia forma mentis non potrá mai modificarsi, come per tutto il resto.

Perché per quanto potró mai diventare tedesca, o apprezzarne i pregi sicuramente evidenti di un popolo che ha tanto da insegnare, sono italiana, per fortuna o purtroppo, come cantava Gaber.

Cinema! Italia! – Film in lingua originale ad Amburgo

(Dal blog “Hamburger di Amburgo” su Zingarate.com)

5 settembre 2013

 

Il blog é appena nato, e non ho ancora avuto modo di farvi dare un vero primo morso a questo succulento Hamburger, eppure c’é giá un evento che scalpita per essere segnalato.

(credits: Istituto Italiano di Cultura di Amburgo)

Da oggi, 5 settembre, per una settimana – fino a mercoledí 11 settembre, il Metropolis Kino in Kleine Theaterstraße 10 (per gli hamburgers acquisiti: una traversa di Damntorstraße, a metá fra le fermate metro di Gänsemarkt e Stephanplatz) ospita la prima tappa della rassegna di cinema italiano “Cinema! Italia!” che girerá 30 cittá tedesche nei prossimi mesi concludendosi a Berlino il 18 dicembre.

La rassegna, realizzata con il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia, e che ad Amburgo vede il contributo importante dell’Istituto Italiano di Cultura, é alla sua 16esima edizione, proietterá film italiani in lingua originale con sottotitoli in tedesco.

La programmazione é composta da:

Reality (2012) di Matteo Garrone;

Il rosso e il blu (2012) di Giuseppe Piccioni;

Tutti i santi giorni (2012) di Paolo Virzí;

L’intervallo (2012) di Leonardo di Costanzo;

Bellas Mariposas (2012) di Salvatore Mereu

e Viva la libertá (2013) di Roberto Andó che festeggerá personalmente l’apertura della rassegna con un incontro col pubblico amburghese, Sabato 7 settembre alle 19:00.

Il grande cinema d’autore attracca per lenire una delle ferite degli espatriati – almeno gli appassionati di cinema nostrano – che seguono le uscite italiane e aspettano di tornare in patria per chiudersi in una sala d’Essay o ricorrono, per disperazione, allo streaming pirata.

La Germania, come l’Italia, é solita doppiare i film che proietta. Non é una cosa scontata all’Estero, dato che in Norvegia, per esempio, quasi tutti i film sono in lingua originale con sottotitoli in norvegese – tranne quelli norvegesi, ovviamente.

Pur essendo una cittá abbastanza grande, ad Amburgo non é cosí semplice concedersi un film che non sia in tedesco. Quei pochi che appaiono sporadicamente restano a lungo nelle sale dove, in generale, la programmazione sembra aggiornarsi secondo tempi giurassici, il che puó essere un bene o un male a seconda dei casi.

La sigla di riconoscimento di un film in lingua originale – nel caso in cui doveste consultare un sito web o la locandina di fronte alla sala – é OmU.

Nei miei quattro mesi amburghesi ho trovato rifugio solo in due cinema che soddisfacessero le mie richieste:

un’oasi felice dei film OmU é lo Zeise Kino su Friedensallee 7-9 ospitato in un vecchio capannone industriale di mattoncini rossi nel cuore del quartiere Ottensen (Altona). Ce n’é sempre almeno uno e si tratta soprattutto di film americani, ma non di americanate! L’atmosfera, poi, é impagabile. Ingresso ridotto il lunedí!

Preferisco, peró, é l’Abaton Kino, in Allende-Platz 3 (zona Universitá – Campus) – ingresso ridotto il mercoledí! Lí mi sono goduta The Great Gatsby in 2d (non sono una grande fan del 3d ma il cinema dispone di una sala “effetti speciali”) e di recente mi ha perfino concesso la visione de La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, con annessa brutale nostalgia di Roma.

Pur conoscendo ancora poco il tedesco, vi consiglio spassionatamente la lettura dei sottotitoli per la traduzione delle parolacce. Sembra tanto cattiva, invece é la lingua piú “educata” con cui abbia mai avuto a che fare.

Perció sfatiamo il primo mito: i tedeschi non possiedono un vocabolario forbito e accattivante per insultarsi o essere volgari.

Guardare un film sottotitolato sarebbe prezioso per esercitare il vostro crucco A1: insieme alle canzoni, non c’é modo migliore per imparare una lingua!

Perció tenete d’occhio questi due cinema che, in inglese o in italiano, potrebbero letteralmente sorprendervi, fino a quando dallo “spaghetti western” potremo passare al “currywurst comedy”!